Palazzeschi eravamo in tre,
noi due e l’amara ironia,
a braccetto per quella via
così nostra alle ventitre.
Il nome, chi lo ricorda?
Dalle parti di San Gervasio;
Silvio Pellico o Metastasio;
c’era sull’angolo in blu.
Mi ricordo però del resto:
l’ombra d’oro sulle facciate,
qualche raggio nelle vetrate;
agiatezza e onorabilità.
Tutto nuovo, le lastre azzurre
del marciapiede annaffiato,
le persiane verdi, il selciato,
i lampioni color caffè;
giardinetti disinfettati,
canarini ai secondi piani,
droghieri, barbieri, ortolani,
un signore che guardava in su;
un altro seduto al balcone,
calvo, che leggeva il giornale,
tra i gerani del davanzale
una bambinaia col bebè;
un fiaccheraio fermo a una porta
col fiaccheraio assopito,
un can barbone fiorito
di seta, che ci annusò;
un sottotenente lucente,
bello sulla bicicletta,
monocolo e sigaretta,
due preti, una vecchia, un lacchè.
– Che bella vita – dicesti –
ammogliati, una decorazione,
qui tra queste brave persone,
i modelli della città.
Che bella vita, fratello! –
E io sarei stato d’accordo;
ma un organetto un po’ sordo
si mise a cantare: Ohi Marì…
E fummo quattro oramai
a braccetto per quella via.
Peccato! La malinconia
s’era invitata da sè.
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