L’ industria culturale

La scuola di Francoforte

Fondata nel 1922, la scuola di Francoforte si forma presso il celebre Istituto per la ricerca sociale attorno a cui gravitano sociologi, economisti e filosofi di stampo hegeliano e marxista. La scuola infatti si propone di indagare la realtà in senso critico e globale con impostazione dialettica e totalizzante alla luce di un modello utopico che mira alla costruzione di una umanità libera e disalienata. Con l’avvento del Nazionalsocialismo, i componenti della scuola furono costretti a fuggire dalla Germania nazista per trasferirsi a Ginevra, a Parigi e poi a New York. Dopo la seconda guerra mondiale alcuni esponenti, tra cui Theodor Adorno e Max Horkheimer, tornarono in Germania per fondare un nuovo Istituto per la ricerca sociale. Da un punto di vista storico-sociale, la scuola di Francoforte è segnata da tre coordinate di fondo: l’avvento del nazismo, che spinge riflessioni sull’ autorità e i suoi rapporti con la società moderna; l’ affermazione del comunismo sovietico, visto come esempio di rivoluzione fallita non auspicata da Marx; infine, il trionfo della società tecnico-industriale, che funge da stimolo per meditare sul capitalismo statunitense, vissuto con gli occhi degli esuli, e sui concetti che emergono da questo, come quello di industria culturale.
Industria culturale è un paradigma socioculturale che indica il processo di riduzione della cultura a merce di consumo. Tale termine compare per la prima volta nell’opera filosofica Dialettica dell’illuminismo, che consta di una serie di saggi scritti nel 1947 in collaborazione tra Adorno e Horkheimer.

Ulisse e la dialettica dell’illuminismo

Con Illuminismo non si intende la categoria storica dell’età dei lumi ma è categoria tipico-ideale che si identifica con il processo di intellettualizzazione occidentale e con la sua logica del dominio, che parte da Bacone e passa per il positivismo. La razionalità propugnata dall’ Illuminismo impone al mondo una razionalità scientifica che oggettualizza la realtà per dominarla e usarla come strumento, individuando nella tecnologia l’unica forma di potere che l’uomo ha sulla forza della natura e sul mito: “L’illuminismo prova un orrore mitico per il mito.”[1]M. Horkheimer e Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, p. 36
Ma la pretesa di accrescere sempre di più il potere sulla natura diventa progressivo dominio dell’uomo sull’uomo: “Il Sé, che dopo la metodica estinzione di ogni traccia naturale, concepita come mitica, non doveva più essere corpo, né sangue, né anima, e nemmeno Io naturale, costituì — sublimato a soggetto trascendentale o logico — il punto di riferimento della ragione, dell’istanza legiferante dell’agire.”[2]Ivi, p. 37 La vittoria della tecnologia rende l’individuo oggetto di analisi a scopo di dominio e manipolazione in quanto asservito al sistema sociale: “la ragione stessa è divenuta un semplice accessorio dell’apparato economico che tutto include.”[3]Ivi, . 39
L’ Illuminismo, ovvero la civiltà occidentale, risulta così segnato da una interna dialettica autodistruttiva che neutralizza la stessa libertà che rivendicava al soggetto: a causa della sua presunzione, il progetto della libertà della ragione si è risolto nel suo opposto. 

La realtà diventa il trionfo della sintesi e dell’appiattimento, luogo in cui muoiono le idee discordanti. Metaforicamente, Ulisse è presentato come il prototipo del dominio e simbolo dell’uomo moderno: vuole ascoltare il canto delle sirene, ma decide di reprimere la tentazione e si fa incatenare all’albero della nave: “le catene con cui si è irrevocabilmente legato alla prassi, ne tengono le Sirene lontano: la loro tentazione è neutralizzata a puro oggetto di contemplazione, ad arte.”[4]Ivi, . 47 Ulisse separa conoscenza e piacere, in quanto quest’ultimo non è strumento funzionale o spendibile. Lui stesso si imprigiona nel suo ruolo sociale: “l’’incatenato assiste a un concerto, immobile come i futuri ascoltatori, e il suo grido appassionato, la sua richiesta di liberazione, muore già in un applauso.”[5]Ibidem
Se Ulisse è il padrone, i marinai sono i lavoratori asserviti, a cui tappa loro le orecchie con la cera per farli continuare a remare: “è ciò a cui la società ha provveduto da sempre. Freschi e concentrati, i lavoratori devono guardare avanti, e trascurare tutto quel che è a lato. L’impulso che li indurrebbe a deviare va sublimato con rabbiosa amarezza in sforzo ulteriore. Così diventano pratici.”[6]Ivi, p. 46In conclusione: “lo schiavo resta soggiogato nel corpo e nell’anima, il signore regredisce.”[7]Ivi, p. 48

L' industria culturale

L’ industria culturale segue la stessa logica della dialettica distruttiva dell’illuminismo. La nascita dell’industria culturale non è un evento preciso: è una serie di procedimenti che legano la cultura di massa all’avvento dei media all’interno della logica del capitalismo. Infatti “film, radio e settimanali costituiscono un sistema. Ogni settore è armonizzato in sé e tutti fra loro […] Film e radio non hanno più bisogno di spacciarsi per arte. La verità è che non sono altro che affari, serve loro da ideologia, che dovrebbe legittimare gli scarti che producono volutamente.”[8]Ivi, pp. 130-131 Viene definita industria in quanto assimila le forme organizzative di questa, in un processo di standardizzazione e razionalizzazione delle tecniche di distribuzione che risponde alle esigenze di un mercato di massa, in cui la cultura diventa solo un’ altra merce di scambio soggetta ai criteri dell’ economia.

L’ industria culturale non si riferisce a una cultura che scaturisce spontaneamente dalle masse nel senso di cultura popolare (come Adorno precisa nella conferenza del 1963 dal titolo Résumé sull’industria culturale), ma alla produzione e distribuzione di prodotti adatti al consumo di massa ad opera del potere dominante (definita poi da Adorno la voce del padrone). L’industria culturale non è neanche prodotta dalla tecnologia o dai media, ma dagli interessi economici del capitalismo. La tecnologia è vista come legittimazione del potere costituito in quanto è detenuta dalle classi economicamente più forti, quindi dominanti. La tecnologia diventa così detentrice dell’ideologia e volta a mantenere lo status quo. La funzione ideologica dell’industria si esprime nei processi di feticizzazione della cultura.

Riprendendo la nozione marxista di feticismo delle merci, il prodotto culturale viene considerato in base al suo valore di scambio: il valore è determinato dal mercato e dalla logica del profitto e non dal prodotto in quanto tale, sostituendo al valore estetico quello di scambio.

L’ industria culturale diventa l’industria del divertimento, ovvero dell’ amusement, definito come “prolungamento del lavoro sotto il tardo capitalismo”[9]Ivi, p. 147che “viene eliso, alla fine, non da un mero diktat, ma dall’ostilità, inerente al principio stesso dell’amusement, verso tutto ciò che potrebbe essere più di esso”[10]Ivi. I prodotti sono costruiti per un consumo distratto e riflettono il modello del meccanismo economico che domina il tempo del lavoro e quello del non- lavoro manovrato e preconfezionato dall’ alto: “lo spettatore non deve lavorare di testa propria: il prodotto prescrive ogni reazione: non per il suo contesto oggettivo- che si squaglia appena si rivolge alla facoltà pensante- ma attraverso i segnali. Ogni connessione logica, che richieda fiuto intellettuale, viene scrupolosamente evitata.”[11]Ivi, p. 148

La cultura ridotta a distrazione momentanea assolve una funzione sociale degradata che riproduce costantemente il sempre-uguale ed esclude sistematicamente il nuovo, eleggendo lo stereotipo a norma. L’ industria culturale riesce tuttavia a occultare questa uguaglianza costruendo una parvenza di distinzione e di originalità che giustifichi la necessità di sempre nuovi consumi e crei l’illusione di una concorrenza e di una possibilità di scelta. Le differenze di valore sono programmate e non corrispondono a differenze oggettive tra i prodotti, ma a una galleria di cliché diversamente organizzati a seconda dello scopo: “già oggi le opere d’arte, come parole d’ordine politiche, vengono adattate opportunamente dall’industria culturale, inculcate a prezzi ridotti a un pubblico riluttante, e il loro uso diventa accessibile al popolo come quello dei parchi. Ma la dissoluzione del loro autentico carattere di merce non significa che esse siano custodite e salvate nella vita di una libera società, ma che è venuta meno anche l’ultima garanzia contro la loro degradazione a beni culturali. L ‘abolizione del privilegio culturale per liquidazione e svendita non introduce le masse ai domini già loro preclusi, ma contribuisce, nelle condizioni sociali attuali, proprio alla rovina della cultura.”[12]Ivi, p. 172

Attraverso i media, l’industria culturale porta l’utente ad annullare e atrofizzare l’immaginazione e la coscienza, trasformando il sogno illuministico di liberare il pubblico con la cultura in un inganno per assoggettarle. La cultura divenuta merce perde la sua funzione critica e la sua valenza oppositiva in quanto soggiogata dal sistema produttivo, rendendo superflua la censura. L’ amusement diventa così atteggiamento di colpevole connivenza nei confronti del sistema: “divertirsi significa essere d’accordo. Divertirsi significa ogni volta: non doverci pensare, dimenticare il dolore anche là dove viene mostrato.”[13]Ivi, p. 156 I consumatori non sono il soggetto, ma l’oggetto intenzionale dell’ industria culturale che impone forme di divertimento organizzato sotto forma di prodotti che hanno la parvenza dell’armonia nelle forme autorizzate dal dominio.

Chiaramente, nell’impianto teorico di Adorno e Horkheimer l’espressione industria culturale assume un’accezione negativa e rientra nella fase definita da McQuail dei media onnipotenti, in cui i media esercitano un potere forte e in grado di modellare e influenzare le coscienze. Certo, come già sottolineato per i due autori è il capitalismo a produrre l’ industria culturale, che viene però veicolata attraverso i media, conniventi nel trasformare la cultura in feticcio e nel portare avanti il sistema della fabbrica del consenso che ha come unico scopo il dominio e la manipolazione di individui atomizzati in masse passive.
Una possibile via di liberazione e di salvezza viene individuata solo nell’arte contemporanea, che rompe gli schemi e i canoni di bellezza tradizionale presentando il mondo nella sua più intima essenza di disarmonia e incompiutezza.

Le teorie dei due filosofi francofortesi hanno avviato un lungo dibattito sulla cultura di massa in diversi autori, come Walter Benjamin e Edgar Morin.

Anche Benjamin ritiene che l’arte subordinata alla logica del profitto divenga un feticcio legato alla merce; il processo di riproducibilità dell’opera realizza inoltre il fenomeno detto “perdita dell’aura”, ovvero della dimensione della sacralità mistica suscitata nello spettatore dalla presenza materiale dell’esemplare originale di un’opera d’arte. Tuttavia, l’arte riproducibile si riscatta in una dimensione pratica, politica, didattica, culturale e sociale: la sua riproducibilità e diffusione attraverso i nuovi media diventa accessibilità che può emancipare le masse e iniziare una possibile democratizzazione culturale.

Il francese Edgar Morin ritiene invece che l’industria culturale sia da un lato strumento ideologico utilizzato per manipolare le coscienze, ma dall’altro anche un’enorme officina di elaborazioni dei desideri e delle attese collettive. I destinatari hanno pertanto un ruolo attivo poiché attraverso gli archetipi, cioè strutture stereotipate organizzate dall’industria, l’ individuo riconosce e ordina i propri sogni, in una costante dialettica tra il mondo della produzione e i bisogni culturali.

How to quote this article: Foglia, D. (2024). L’ industria culturale. Books of Art. Available from www.booksofart.org/l-industria-culturale/   

References

References
1 M. Horkheimer e Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, p. 36
2 Ivi, p. 37
3 Ivi, . 39
4 Ivi, . 47
5 Ibidem
6 Ivi, p. 46
7 Ivi, p. 48
8 Ivi, pp. 130-131
9 Ivi, p. 147
10 Ivi
11 Ivi, p. 148
12 Ivi, p. 172
13 Ivi, p. 156

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